Palmira, le sue “rovine” nei racconti di viaggio di Alberto Moravia
«Ecco Palmira, finalmente, all’uscita dalla Valle delle Tombe»: così nel lontano giugno 1953 Alberto Moravia descriveva il suo arrivo fra le rovine dell’antica Palmira in un reportage dalla Siria edito sul “Corriere della Sera” poi recuperato in Alberto Moravia, Viaggi. Articoli 1930-1990 ( Bompiani, 1994). Un tassello di reportage da ripercorrere e riattraversare in questi tempi in cui le immagini di ciò che resta dopo efferati saccheggi, scempi, uccisioni e distruzioni ripropongono a distanza il senso più profondo delle testimonianze artistiche di civiltà remote che allora, nel 1953, apparivano a Moravia come «un vasto cantiere abbandonato». Fra « le rovine sparse a mucchi, a cataste, a blocchi» si profilavano nel vuoto «un colonnato esile» e poi« un altro, poi un terzo, poi un quarto» e «qua e là tratti di muraglia, archi spezzati, pilastri tronchi, edifici quasi completi»: frammenti e pietre di «color caldo, arrossato, acceso, che spicca e risplende contro l’azzurro intenso del cielo con la lucentezza e la durezza del cristallo». Impressioni e descrizioni dal vivo – depositate sulla lontana pagina di viaggio- che parrebbero adatte ancor oggi a commentare ciò che vediamo attraverso lo schermo televisivo o del PC di ciò che resta di Palmira.
Ma la “vista” (seppur integrata dal chiacchiericcio di sottofondo del “pezzo” o “servizio” televisivo) non è mai sufficiente a comprendere e interpretare il significato sprigionato dalle «rovine» della storia – eccelso topos letterario, fra l’altro- così come con grande sensibilità e talento riusciva al Moravia osservatore consapevole, colto, ferrato attraverso la parola, la sua prosa di viaggio asciutta, meditata, misurata.
«In questa atmosfera rarefatta e brillante» egli scriveva « le rovine acquistano un’indicibile aria di leggendaria irrealtà»: un senso di «inverosimiglianza» acuito dagli «inganni» di Palmira dovuti alle distanze «per cui le rovine sembrano vicinissime e invece sono lontane e il castello arabo sembra eccelso e imponente e invece è piccolo e costruito su una bassa collinetta». La medesima «distanza» ingannatrice che agisce quanti “vedono” oggi quei luoghi attraverso la prospettiva dettata dall’occhio della telecamera, dalla ripresa magari persino di un drone. Sembrano rovine vicinissime ma non lo sono perché erano allora – e lo sono ancor oggi- “inganni” della storia, una storia «evaporata del tutto da Palmira» allora come ora. Evaporata seppur« non lasciando che la bellezza, per cui si stenta a immaginare rovine così perfette e così morte, completate delle loro parti mancanti, popolate, vive».
Moravia attuava a Palmira una coinvolgente verifica del«fenomeno delle rovine italiane» che esistono «in quanto rovine, senza riferimenti al loro passato, sfondi grandiosi e mesti di un mondo crollato e incomprensibile» anche se a Palmira «manca l’albero, la pianta, il verde, “le vegetal irrégulier” della poesia baudleriana o gli sfondi dei quadri di Poussin o delle stampe di Piranesi perché tutto «è pietra, aridità, polvere, sabbia, architettura e deserto». Una distinzione, una alterità sprigionate dalle rovine di Palmira che torneranno come temi dominanti lungo un successivo (1985) racconto di viaggio da una Siria «sconvolta da una modernizzazione tumultuosa».
Francesca Petrocchi