È tutto accaduto, più o meno. Rubiamo uno dei più noti incipit dello scrittore Kurt Vonnegut per provare a descrivere ciò che si prova entrando nella nuova e stupefacente mostra di Damien Hirst, “Treasures from the Wreck of the Unbelievable”, allestita a Venezia sulle due sedi di Palazzo Grassi e Punta della Dogana.
Un’esperienza di scoperta o, meglio, riscoperta del lavoro di uno dei più grandi artisti contemporanei nella quale ci si imbatte in una serie vertiginosa di diversi livelli di realtà e di diverse possibili verità, ricordando che la verità, recita una scritta quasi dantesca all’ingresso della mostra, giace da qualche parte tra le bugie e il vero (in inglese il gioco di parole tra lies-bugie e lies-giacere è decisivo). Osservando le poderose sculture riemerse dal naufragio dell’incredibile, e quindi addentrandoci nel terreno dove l’incredulità non ha più cittadinanza, si ha la sensazione di non ritrovare più il Damien Hirst che conoscevamo, ma a fine percorso invece è come se lui fosse sempre stato lì, addirittura amplificato.
La curatrice della mostra, Elena Geuna: “L’artista – ci ha detto – è anche un grande collezionista e quindi qui ha voluto in un certo senso trasformarsi completamente ed è questo che rende gli artisti grandi, la capacità di creare ex novo, la capacità di sorprendere e innovare. Sicuramente questa mostra non lascerà incerte le persone, c’è chi se ne innamorerà e ci sarà qualcuno che non la capirà, ma la cosa fondamentale per l’artista è permettere che i visitatori si pongano delle domande”.
Domande che ruotano intorno alla costruzione narrativa che Hirst ha immaginato, documentato, e ammantato di realtà, con tanto di prove filmate: ossia il ritrovamento del mitico tesoro del collezionista Cif Amotan, naufragato millenni fa e riemerso e preso in consegna dall’artista, che ora lo mette in mostra. Una narrazione che è parte essenziale della mostra e che genera una idea nuova di arte, pur lasciando aperte delle falle attraverso le quali, direbbe gente come William Blake, Borges o Philip Dick, intuire un’altra verità, che però è sempre la penultima, mai – grazie al cielo – quella definitiva. E in queste falle troviamo, accanto a una statua colossale dentro Palazzo Grassi, anche reperti marchiati Walt Disney, o un autoritratto dell’antico collezionista che fa da specchio allo stesso Hirst.
“Le tematiche – ha aggiunto la curatrice – sono quelle che lui declina da vari decenni, ma fatte in modo completamente diverso, usando dei materiali nuovi, usando delle mitologie del passato, riscritte nel presente e forse con più delicatezza rispetto a come lui aveva fatto all’inizio degli anni Novanta”.
Mitologie che sono molteplici, vere e false al tempo stesso, come le sensazioni, completamente diverse, che allo spettatore capita di provare nei vari momenti dell’esposizione, dove dalla serietà si passa alla facezia, e poi all’inverso, senza mai perdere però quel senso di stupore e di novità che elettrizza (e rende più complesso) ogni passo. Ma sono passi che vale la pena provare a fare, per sentire quella sensazione, sempre per citare il visionario Blake, di “matrimonio del cielo e dell’inferno” che forse mai avremmo pensato di associare al ragazzo arrabbiato di Bristol Damien Hirst.
E quando chiediamo, prima di congedarci, a Elena Geuna, quale verità ci portiamo via da Venezia, la curatrice risponde così: “Che si può continuare a sognare e che è permesso credere ai miti e che l’arte esiste, si rinnova e continua a permettere all’umanità di progredire”. (askanews)