“Amarella, la vera storia della bambina cigno”. La fiaba di Giuseppe Conte recensita da Valentina Fortichiari

conte

Per un cantore del mare, il poeta Giuseppe Conte (nella foto), una fiaba non poteva che iniziare con l’evocazione di una tempesta, terrificante ma insieme propizia ad allegre similitudini d’ispirazione domestica: “Il vento aveva gonfiato le onde che sembravano montagne e gallerie tutte verdi e biancastre, la schiuma saltava dappertutto e copriva tutto, che l’avresti detta farina o pan grattato”. Che la schiuma marina possa sembrare farina o pan grattato può venire in mente soltanto a un curioso amante della buona tavola, abituato a sbirciare l’operosità di una moglie cuoca tra le pareti di una cucina. Ma non sarà l’unica tra le similitudini originali. Dalle prime battute di Amarella, la vera storia della bambina-cigno (pp. 160, euro 13,90, copertina e disegni di Fabian Negrin, Salani 2017) apprendiamo come finisca in dramma la gita del Marchese di Boscomare, che su un gozzo dalla bella chiglia bianca, con la sua famigliola, lascia la sua terra per avventurarsi in mare aperto. Il gozzo si capovolge, e una bambina di soli quattro anni fa appena in tempo a tendere la mano al padre quando entrambi i genitori scompaiono negli abissi; ma un’onda miracolosa la deposita dolcemente sulla sabbia della spiaggetta di Tiravento, tra relitti di alghe e conchiglie, mentre la furia della natura progressivamente si placa.

Questo inizio, ricco di immagini forti dominate dalla luce e da quel non colore che è il bianco, ambientato in terre improbabili dove gli elementi naturali – boschi, mari, vento – regnano sovrani, basta a farci capire che siamo dentro una fiaba, dove tutto può accadere non appena la fantasia, dell’autore e del lettore che lo asseconda, sia libera di spiccare il volo verso un mondo dell’assurdo, dell’inspiegabile, fra incubi onirici, terrori, mutazioni, reminiscenze, sino all’ immancabile lieto fine. Gli elementi canonici della favola Conte li conosce e mostra di saperli manovrare con abilità: l’allontanamento della protagonista dai familiari, l’entrata in scena della malvagità con il suo contorno di delatori e fiancheggiatori, i tranelli, l’asservimento crudele della povera vittima, la magia e, grazie ad essa, il ritorno alla normalità di una vita libera e felice. Sin da subito Conte dà fuoco alla miccia del suo armamentario immaginifico: abile affabulatore, mette in campo i protagonisti di una vicenda continuamente animata da colpi di scena, trucchi e invenzioni, mescolando il tutto con trovate umoristiche che stemperano la tensione di certi passaggi salienti, e mostrando di divertirsi, lui per primo, a raccontare. Tiene d’occhio un pubblico giovane, naturalmente, ma sa incantare mente e cuore di chiunque sia disposto ad ascoltare lasciandosi alle spalle la diffidenza della logica, che qui non è ammessa. Dunque la bambina, miracolata dalla spinta della mano paterna e di un’onda amica, viene raccolta in preda al terrore sull’arenile e portata a vivere al Castellaccio, dove si è frettolosamente insediato lo zio Leonardo Saverio Notti, nuovo Marchese di Boscomare che è però incomparabile con il mite padre e subito, anzi, la prende in antipatia – tanto più che la piccola orfana parrebbe essere di pietra o legno, avendo perduto per lo spavento l’uso della parola: dalla sua bocca escono soltanto suoni confusi e tremendi, ciò che le inimica anche l’intera corte di loschi figuri che attorniano il falso Marchese e ne assecondano le stranezze: Poldo il maggiordomo e Poldessa la governante che parla un ruvido toscano, Cavezza lo stalliere e Venatore che va a caccia d’ogni specie di animale. Relegata in una stanzetta buia, deposito di carbone e di cassette di stoccafisso, tutti si dimenticano di lei. Ma la bambina muta sopravvive alla meglio e cresce, cercando di tanto in tanto di sottrarsi agli odiosi personaggi che la opprimono e imparando molto presto a discernere il bello e il bene dal male, perché – si sa – “le bambine sono più avide di conoscenza rispetto ai maschi…”.

Tra i cavalli che guarda correre liberi, si affeziona a Cielo Nuvoloso, dal manto pezzato e dalla folta criniera; poi fa amicizia con Agrifoglio, un uomo solitario, non avvezzo a parlare con i suoi simili (per cui i due si intendono immediatamente), ma che le insegna tutto sulle erbe curative e sugli ortaggi. Ed è lui, intenerito dagli arruffati capelli color grano della bambina e dalle sue lentiggini, a darle il nome di Amarella, un’erba dalle foglie frastagliate e dal fiore con capolino giallo e petali bianchi – ottimo infuso per il fiato corto. A undici anni, selvatica e magra, sempre triste per quella maledizione che le inibisce di comunicare con altri se non con animali ed esseri umani come lei privi di parola, Amarella ha tuttavia “improvvisi scoppi di ridere e di quella gioia senza motivo – dice bene Conte – che talvolta chi è afflitto da lunghe malinconie conosce più e meglio degli altri”. Affezionarsi alla sveglia bambinetta non è difficile, non fosse che a un certo punto lei cade preda del malvagio Dottor Cut (sempre significativa la cura dell’autore per i nomi), che nel chiuso di un laboratorio dove a nessun altro è lecito mettere il naso pena la morte, conduce inquietanti ricerche per cambiare il mondo. Ma qui occorre fermarsi: il riassunto di una fiaba, come di qualunque vicenda che, alla lettura, tiene incatenati alle pagine, impone che della storia non si debba svelare se non l’indispensabile, utile ad accrescere la curiosità e il senso della meraviglia.

È consentito solo anticipare che Amarella, per effetto di una cruenta metamorfosi operata dagli esperimenti del perfido Dottor Cut, si muta in bambina-cigno; ma riuscendo infine rocambolescamente a fuggire, conosce le gioie del volo, la festa del volo sul mare, “la distesa azzurro scuro tutta bave di schiuma”, e può contemplare dall’alto il paesaggio puntando dritto verso il sole nascente senza bruciarsi gli occhi, può scendere e planare su torrenti e laghi, e poi concedersi risalite improvvise, scoprendo ancora una volta ciò che già sapeva e la esalta: che “l’acqua le è amica”. Come non accorgersi che si tratta di temi e di passioni che non solo fanno la gioia di Amarella, ma sono congeniali a Giuseppe Conte – come la contemplazione degli animali e della natura, il mito del volo e dell’acqua che ha nutrito la sua poesia? Come non sentire il suo canto in certi passaggi? “Anche il Bosco ha le sue onde e le sue tempeste, quando soffia il vento tra i rami delle querce, degli abeti e dei pioppi tremuli”. Mentre vola, Amarella pensa e pensa. Non fa che pensare, ma soffre perché non è possibile stare senza dar veste ai pensieri trasformandoli in parole, non si può tenerli “chiusi in sé come sottaceti in un vasetto”. Potrebbe essere, questo, l’unico velato accenno dello scrittore, dell’intellettuale, alle difficoltà odierne di far sentire chiara e forte la propria voce, nel panorama della cultura italiana, “l’età della inconsistenza”, come l’ha definita Roberto Calasso. Sempre nelle fiabe è implicita una morale, una verità non altrimenti conclamata. Ed ecco, quando tutto sembra perduto, il colpo di scena.

Come nelle migliori favole ci vorrebbe a questo punto un tocco di bacchetta magica, una formula impronunciabile alla Mary Poppins… Ma l’autore inventa un mago che risolverà tutto, forse il più simpatico della compagnia, dopo la bambina. Nonostante che a volte sia incline al balbettio, Vocamen (un nome, un destino: come per ogni personaggio) parla tutte le lingue del creato ma è distratto tanto da infilarsi tre-quattro giacche una sull’altra. Ma basta! non è lecito aggiungere altro, è proprio qui che si gioca la partita della fiaba. In queste ultime pagine i fuochi d’artificio dell’autore non conoscono tregua, inscenando un finale che, verrebbe da dire, suscita nel lettore un desiderio infantile e l’invocazione che l’accompagna: “Vai avanti, ti prego, racconta ancora un pochino”.

Valentina Fortichiari 

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